Da un grande potere derivano grandi responsabilità. E non solo se si è un supereroe come Spider Man. Anche in laboratorio, col camice bianco, tra provette e microscopio, infatti, si può fare la differenza. Essere utile. Cambiare la vita delle persone che convivono con una malattia, a volte ancora senza cura.

«In effetti, l’idea di poter contribuire ad aiutare persone che soffrono è una grande motivazione nel nostro lavoro, che ci carica emotivamente anche di una grossa responsabilità: quello che per anni abbiamo fatto in laboratorio e ora stiamo facendo in clinica può servire a risolvere il puzzle della talassemia e auspicabilmente cambiare la storia di chi deve fare i conti con questa malattia ereditaria che causa un’anemia cronica molto grave». C’è in ballo dunque un importante traguardo scientifico, ma anche e soprattutto l’aspettativa e la speranza dei pazienti e dei loro familiari. Per questo, parlando del suo lavoro, Giuliana Ferrari non nasconde l’emozione: all’Istituto San Raffaele-Tiget di Milano, coordina l’unità di ricerca impegnata allo sviluppo di una terapia genica efficace per la cura della talassemia.

«Una terapia – spiega – che potrebbe rappresentare una svolta per coloro che non dispongono di un donatore compatibile o non hanno i criteri per effettuare il trapianto di midollo osseo, al momento l’unica terapia risolutiva. Una terapia che potrebbe liberare i pazienti dalla dipendenza dalle trasfusioni e dalle complicanze della malattia». E le trasfusioni, da fare regolarmente ogni 15-20 giorni, rappresentano un trattamento salvavita, ma condizionano pesantemente la vita di bambini e adulti talassemici, perché qualsiasi attività deve essere programmata in modo da non mancare mai all’appuntamento con le sacche di sangue da trasfondere.

Partita nel 2015, la sperimentazione clinica (finalizzata a testare sicurezza ed efficacia della terapia genica che prevede, per la prima volta, la somministrazione delle cellule staminali corrette direttamente nel midollo osseo) è ancora in corso, ma i risultati preliminari sono incoraggianti.

«In generale abbiamo infatti riscontrato miglioramenti nella qualità di vita dei pazienti, avendo potuto ridurre in modo considerevole il numero di trasfusioni, con conseguente minor affaticamento che è tipico quando le riserve di sangue sono ormai in calo. Ma in particolare abbiamo notato che i pazienti pediatrici rispondono meglio e più rapidamente alla terapia: tre dei quattro bambini coinvolti, infatti, a un mese dal trattamento non hanno più avuto bisogno di trasfusioni». L’ipotesi è che la terapia genica sia più efficace sulle cellule staminali giovani.

Ferrari, da sempre impegnata sul fronte della terapia genica per le malattie del sangue, da oltre dieci anni lavora allo sviluppo di “taxi” molecolari per poter introdurre il gene sano nelle cellule del sangue dei pazienti con talassemia, e correggere così quel difetto genetico nella produzione di emoglobina, da cui deriva l’anemia cronica. «In questo caso usiamo come veicolo del gene terapeutico un vettore lentivirus, derivante cioè da Hiv, il virus dell’Aids, di cui però modifichiamo completamente il genoma, eliminando le sequenze di Dna dannose». In altre parole, il virus viene smontato e reso innocuo in modo che possa trasportare a destinazione il gene funzionante senza fare danni. E la destinazione è rappresentata dalle cellule staminali ematopoietiche, quelle cioè che danno origine a tutte le cellule del sangue: vengono prelevate dal paziente, geneticamente corrette in laboratorio e poi iniettate di nuovo nel paziente in modo che possano fare per bene il loro lavoro.

E a proposito del suo lavoro di ricercatrice, Ferrari dice: «Ci vuole dedizione e pazienza, serietà e competenza: in circa dieci anni abbiamo dimostrato la sicurezza e l’efficacia di questo approccio in laboratorio, passaggio inevitabile per poter testare la strategia terapeutica sui pazienti». E ora la ricerca continua. È la lunga strada dello sviluppo di nuove terapie. Non ci sono scorciatoie, ma regole ferree da seguire e standard di qualità elevatissimi a cui attenersi.

«È un lavoro bellissimo – aggiunge – che ti pone di fronte sempre a nuove sfide che giorno dopo giorno affronti nella speranza di cambiare le sorti di chi vive con il fardello di una malattia. Io non potrò mai dimenticare il sorriso dei bambini e le parole riconoscenti dei pazienti adulti: il mio lavoro si nutre anche di questo».