Elena Cattaneo è senza dubbio una persona pragmatica. Appassionata di biologia e genetica, di fronte alla scelta dell’Università decide di frequentare farmacia, per trovare un compromesso tra seguire la sua passione e una disciplina che le garantisse sbocchi lavorativi. Ma pragmatico non vuol dire cinico. Anzi, nel caso della Senatrice a vita, è vero proprio l’opposto.

«La scienza, la conoscenza, è importante per tantissimi motivi, per dare una speranza ai malati, ma soprattutto perché disinnesca la cattiveria umana» spiega, parlando della sua specialità, la malattia di Huntington, una malattia genetica rara causata da una mutazione in un singolo gene. Chiunque porta questa mutazione svilupperà questa malattia, che porta alla degenerazione di particolari neuroni nel nostro cervello che regolano il movimento, portando a movimenti incontrollabili fino all’invalidità totale e la morte».

Venticinque anni fa Elena non era ancora professoressa alla Statale di Milano, né direttrice del centro interdipartimentale di ricerca sulle cellule staminali dell’Università di Milano. Era una studentessa di dottorato e stava studiando a Boston, all’MIT, nel laboratorio di uno dei pionieri delle cellule staminali, Ron McKay. Proprio mentre studiava come le cellule staminali diventano neuroni, un incontro fortuito e speciale cambierà la sua carriera: «La miccia si è accesa quando ho incontrato Nancy Wexter, che ha dato origine alla comunità di studiosi attorno questa malattia. Era andata a reclutare in giro per il mondo scienziati per trovare il gene che causava questa terribile malattia. E concluse dicendo: andiamo in Venezuela».

La malattia di Huntington è presente in tutto il mondo, ne soffre circa una persona su 8000; ma due paesi, il Venezuela e la Colombia sono particolarmente colpiti. I primi sintomi, che si manifestano attorno ai 35 anni, sono contrazioni improvvise, scoordinate, involontarie: le coree, “danze”, che però portano con sé isolamento e discriminazioni. «Ci sono villaggi, come San Luis, sul lago Maracaibo – racconta – dove su diecimila abitanti quattromila hanno la malattia». È solo grazie alla loro generosità, alla donazione del sangue di queste migliaia di malati, che è stato possibile identificare il gene responsabile della malattia.

In alcuni villaggi i malati sono ancora identificati come “indemoniati” oppure, soprattutto in Colombia, se la moglie sviluppa i sintomi dell’Huntington, capita spesso che il marito abbandoni la famiglia, ripudiando i figli e lasciando che vivano soli per strada. «Quando non c’è conoscenza, quando non c’è scienza, si genera discriminazione, stigma, isolamento, vergogna».

Per ora per la malattia di Huntington esistono solo trattamenti sintomatici: farmaci che riescono a controllare i disturbi motori e psichiatrici. Grazie alla scoperta del gene c’è stato però uno sviluppo enorme, verso dei trattamenti che possano fermare o quantomeno rallentare la progressione della malattia. «Stiamo costruendo degli “scotch molecolari”, dei pezzettini di DNA che se somministrati al paziente riconoscono solo il gene malato, si incollano, e lo silenziano. Non possiamo togliere il gene malato dai neuroni, ma gli si può così impedire di svolgere il suo ruolo. Ci sono già segni positivi, e tra poco partiranno le prime sperimentazioni cliniche».

C’è ottimismo, ma le sfide da affrontare sono ancora tante, ed è presto per cantare vittoria: «La ricerca – conclude – non può promettere nulla eccetto una cosa: l’assiduità. La promessa che non smetteremo mai di cercare».