«Noi malati siamo come piante nel deserto: dobbiamo adattarci a condizioni difficili ed è una fatica continua». Tommasina Iorno riassume così la sua vita con la talassemia beta, grave malattia genetica caratterizzata da anemia che può danneggiare diversi organi.

A 48 anni, Tommasina ha imparato a conviverci: infanzia e adolescenza sono state bruttissime, ma oggi sa che ribellarsi alla malattia non serve. Anzi, bisogna dedicarle molte attenzioni, perché la sopravvivenza va conquistata.

Ogni due settimane circa ci sono le trasfusioni. Ogni giorno c’è l’appuntamento con la terapia ferrochelante, per evitare che il ferro introdotto con le trasfusioni si accumuli, danneggiando l’organismo.

«Prendo un farmaco per bocca e la sera metto un microinfusore che rilascia un altro farmaco per 12 ore».

Ogni anno c’è una serie di esami da fare: l’ecocardiogramma, l’ecografia addominale, la risonanza magnetica. E poi c’è la costante del dolore. «Soffro di artrosi e osteoporosi -, spiega Tommasina, che è anche presidente dell’Associazione talassemici drepanocitici lombardi –. Per via del male alla schiena non posso più prendere in braccio i miei figli, due gemelli di cinque anni e mezzo». Anche la paura – di soffrire, di non farcela – non manca mai.

Certo, con le trasfusioni e la terapia ferrochelante oggi è possibile una vita quasi normale. Ma è un “quasi” che costa dolore fisico, frustrazione, stanchezza, ritmi di vita dettati dalle terapie. E il peggio è sempre dietro l’angolo.

Le cose, però, potrebbero cambiare. Presto, e forse radicalmente. La nuova speranza si chiama terapia genica e una sperimentazione clinica sarà pronta a partire entro l’anno.

«La talassemia beta è causata da mutazioni in uno dei geni che codificano per l’emoglobina», spiega Giuliana Ferrari, coordinatrice del progetto all’Istituto Telethon di Milano. Dunque, l’idea è semplice: dare ai pazienti una versione sana del gene. «Si prelevano le cellule staminali emopoietiche del paziente e le si trattano per inserire all’interno il gene funzionante. Poi le cellule modificate sono iniettate di nuovo nel malato».

La speranza è che le cellule modificate comincino a produrre emoglobina sana, riducendo o eliminando la necessità delle trasfusioni.

La strada per arrivare è stata lunga: l’equipe di Ferrari lavora a questo progetto da più di dieci anni e ci vorrà ancora un anno dall’inizio della sperimentazione per capire se avrà funzionato. Ma la prospettiva di una svolta importante c’è. «Sarebbe bellissimo non dover più trasfondere, o farlo solo 3 o 4 volte l’anno», conclude Tommasina. Non resta che aspettare, e sostenere anche quest’ultimo tratto di strada.