«Le persone», scrive Franco Arminio in una sua poesia tra quelle raccolte in “Resteranno i canti”, «s’incontrano per rinascere. Nascere non basta mai a nessuno».

Angelica, che affronta la sindrome di Phelan Mc-Dermid e sua mamma
Angelica, che affronta la sindrome di Phelan Mc-Dermid, insieme a sua mamma Ornela

Ornela, 44 anni, è «rinata» almeno tre volte più una, nella sua vita. Quando a 19 ha incontrato Stefano, oggi 46 e suo marito, nella casa al mare affittata a Cesenatico dove avrebbe dovuto solo passare un’estate con i genitori.

Quando poi a Potenza è nata Chiara, 10 anni, la loro prima figlia: cesareo d’urgenza, felicità e amore, così tanto amore da far arrivare 3 anni dopo anche Angelica ed era giugno, e tutto sembrava a posto mentre a posto non era.

«Piccolina, a soli due mesi prende un’infezione, da streptococco: non mangiava più, era calda, si lamentava. La ricoverano, è in quel momento che si accorgono per la prima volta di un ritardo. I medici le fanno degli esami: “Signora, la bambina non fissa, non guarda, non sorride. Deve vederla un neurologo, un neuropsichiatra infantile”. Ci rivolgiamo così al Bambin Gesù di Roma, dove parte il nostro calvario. Lì la visitano, ci spediscono in un centro specializzato a Lecco, da cui ci telefoneranno, dopo il test genetico: “Sua figlia ha una malattia. Una malattia rara”. “Ma si guarisce? Che cure ci sono?”. “Meglio prendere un appuntamento, parlarne di persona”.

Mi sono fatta ripetere che delezione, mutazione di cromosoma fosse (il 22q13), e mi sono messa a cercare su Internet questa “sindrome di Phelan Mc Dermid”: un’anomalia de novo, non ereditaria, venuta al mondo con lei. Cinquanta casi diagnosticati in Italia. Non l’avrebbe trovata neanche l’amniocentesi. Fa perdere il gene SHANK3, espresso soprattutto nel cervello. Me l’avrebbe trasformata presto in una bambola di pezza».

Quel giorno Ornela conosce il panico di quando qualcosa che avevi solo visto sui cartelloni per la raccolta fondi di Telethon non è più lontano: ti entra in salotto, si siede al tuo fianco, e inizia a riguardarti. «Adesso che facciamo?», si chiedono con Stefano. Decidono così: lei avrebbe lasciato il suo lavoro da commercialista, si sarebbe trasferita con Chiara e Angelica a Roma, lui avrebbe continuato a fare avanti e indietro, l’avvocato pendolare che ancora è.

«Siamo impegnate dal lunedì al sabato nelle terapie, nella logopedia, nella piscina. L’ippoterapia, tra tutte, è il trattamento che la eccita di più. Sarà per il pelo morbido del cavallo, o per la sensazione di essere alta, le sta facendo un gran bene. Succede spesso io pensi che ad Angelica abbiamo dato proprio il nome giusto: perché è buona, coccolona, ascolta la mia voce, il mio abbraccio, e sta tranquilla. Anche alla scuola materna la stimolano, e da che era un vegetale a cui alzavi il braccio e subito cadeva giù, che non reggeva la testa, non si muoveva per niente, adesso qualche piccolo segnale di presenza e interazione c’è».

Il tempo passa, la situazione non è delle migliori, ma la vita è più forte, e arriva anche Domenico, che oggi ha 4 anni: «Un dono di bambino, così attento, premuroso: “Quant’è bella Angelica”, ripete sempre. Come ho fatto a partorire anche solo l’idea di un altro figlio dopo Angelica? Beh, da principio noi ne volevamo tre di figli. Poi, dopo un piccolo arresto dovuto alla notizia della malattia, ci siamo immaginati di darle un altro fratello su cui contare un domani che non ci saremo più noi, e la cosa ci dava serenità. Dimentico ogni stanchezza, a guardarli così uniti. Tutti sanno che Angelica è qui con noi, con un problema. Ai ricoveri li porto, così come al Dynamo Camp: tendo a non escluderli mai».

La paura? «Che crescendo rimanga sola. Più è sollecitata, più è viva. Più invece la lasci abbandonata, più s’irrigidisce». Che cosa le ha insegnato, questa storia, che è la sua: «La pazienza e la cura. L’amore che ti torna, più di quello che pensi e meriti». Il sogno: «Che la ricerca medica faccia sempre più in fretta passi da gigante. Io prego perché questo avvenga, la fede in me è una forza. Vorrei che con la comunicazione aumentativa e alternativa, e grazie a un computer, Angelica possa farsi capire e essere così meno assente dal mondo che la circonda. Quando con i miei figli rincasiamo, la sera, finite tutte le attività in giro per la città, ci mettiamo intorno ad Angelica, che ha un aggeggio davanti, il Vocas, e le chiediamo di dirci che cosa ha fatto a scuola, e lei allora preme un tasto attraverso cui parte – grazie alla voce registrata di un amichetto – il racconto della giornata: che cosa ha mangiato, che cosa di nuovo sa oggi rispetto a ieri. Con Chiara e Domenico si ride, stretti. A me piace, la nostra famiglia speciale».