Javier aveva solo sei mesi quando è arrivata la diagnosi di sindrome di Wiskott-Aldrich. Dopo mesi di ansie, paure e cure mediche molto impegnative, con la terapia genica le cose sono molto cambiate. Come dicono mamma e papà, “ora Javier sta in modo fantastico”.

Attesa, incertezza, preoccupazione. Sono le parole che Jesus e Cristina usano più spesso per raccontare la prima parte della storia del loro bimbo Javier. Solo a partire da un momento preciso della storia queste parole cupe lasciano posto ad altre decisamente più positive: sollievo, gratitudine, gioia.

Lo spartiacque si colloca in una data precisa: 9 dicembre 2021, quando Javier, che allora aveva 18 mesi, arriva da Cordoba, in Spagna, all’Ospedale San Raffaele di Milano per ricevere un trattamento sperimentale di terapia genica per la sua malattia genetica rara, la sindrome di Wiskott Aldrich. “Non ne avevamo mai sentito parlare prima della diagnosi e all’improvviso abbiamo scoperto che il nostro bimbo di pochi mesi rischiava di non superare i 30 anni”, ricordano i genitori. “Il sollievo quando ci hanno comunicato la possibilità di essere incluso nella sperimentazione clinica è stato immenso”.

I primi sintomi e la diagnosi

Come spesso accade in questi casi, le prime manifestazioni della malattia di Javier non sono state pienamente comprese dai medici. “Quando aveva un mese ci sono stati episodi di sangue nelle feci” raccontano insieme. “Inizialmente si pensava a un’allergia al latte vaccino, poi a un’infezione alle vie urinarie. A quattro mesi, invece, sono comparse le petecchie: “ci siamo rivolti a un dermatologo, ma i fallimenti delle terapie hanno fatto capire che doveva esserci qualcos’altro. A quel punto, il dubbio era tra leucemia e una malattia genetica rara”.

Un esame del midollo osseo ha escluso la prima mentre in seguito alle analisi genetiche si è arrivati a confermare la seconda: sindrome di Wiskott-Aldrich, una malattia caratterizzata da deficit del sistema immunitario e alterazioni delle piastrine. Si manifesta fin dall’infanzia con eczema, infezioni ricorrenti e recidivanti e disturbi della coagulazione; inoltre, si associa a un aumento del rischio di malattie autoimmuni, linfomi e leucemie.

Dopo la diagnosi: una vita che cambia, tra difficoltà e speranze

Dopo la diagnosi, il primo passo è stato prendersi cura in modo adeguato delle condizioni di Javier, che allora aveva solo sei mesi. “Ogni mattina bisognava svegliarlo alle sei per fargli prendere le medicine (e chiunque abbia un figlio sa quanto può essere difficile convincerli a quell’età) e più volte al giorno mettergli una crema specifica per la sua pelle: tendeva a grattarsi per il prurito, spesso facendosi sanguinare. Periodicamente, poi, c’erano i ricoveri in ospedale: ogni tre settimane per le infusioni di immunoglobuline e al bisogno per le trasfusioni di piastrine o in caso di infezioni” ricorda la mamma. Che non a caso alla domanda “come sta Javier oggi” risponde immediatamente: “Benissimo, non deve fare più nessuna terapia cronica”.

Una situazione non facile, insomma, anche perché a casa c’era una sorellina di poco più di tre anni: “Cercavamo di darle attenzioni, ma l’impegno per Javier era tanto e quando veniva ricoverato la sorellina doveva stare con i nonni”.

La preoccupazione più grande, però, era quella per il futuro. “Ci hanno spiegato che la sindrome di Wiskott-Aldrich può essere trattata con il trapianto di midollo osseo da donatore compatibile e che, senza questa terapia, l’aspettativa di vita è intorno ai trent’anni”, raccontano. “Abbiamo passato mesi sull’altalena dell’attesa di trovare un donatore compatibile, tra speranze e delusioni”.

Purtroppo, la ricerca di un donatore non è andata a buon fine, ma all’orizzonte c’era un’altra speranza. “Ci hanno parlato della possibilità di un trattamento sperimentale – la terapia genica – messa a punto dai ricercatori dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica e che veniva somministrato a Milano”.

Anche in questo caso, però, si trattava di aspettare: per entrare in una sperimentazione clinica bisogna corrispondere a una serie di criteri, detti appunto di inclusione. “Quando ci hanno detto che Javier era idoneo finalmente ci siamo rilassati un pochino e abbiamo provato un primo, grande sentimento di gratitudine per i ricercatori e i medici che si occupavano di questa sperimentazione”.

Le sfide della terapia

Mamma, papà, Javier e sorellina sono arrivati a Milano ad agosto 2021, ma una serie di infezioni hanno posticipato la data del trattamento, in quel famoso 9 dicembre in cui tutto è cambiato. Sulla carta, la terapia genica per la sindrome di Wiskott-Aldrich sembra semplice. Si tratta di prelevare dal paziente le cellule staminali del sangue, trattarle in laboratorio fornendo loro una versione corretta del gene difettoso responsabile della malattia e infine re-infonderle al paziente stesso.

Nella pratica, però, questo comporta anche una chemioterapia che permetta di fare posto alle cellule modificate nel midollo osseo del paziente. Con la chemioterapia, le difese immunitarie si azzerano e il paziente deve rimanere per diverso tempo in ospedale in una camera sterile. “Ci siamo rimasti per un mese – Natale compreso – alternandoci”.

Anche questo non è stato un periodo facile: parliamo di mesi interi lontano da casa, in un paese sconosciuto. “Ecco, un altro motivo di gratitudine è per il Progetto Come a Casa, che ci accolti davvero a braccia aperte, occupandosi e preoccupandosi di tutto quello che non erano gli aspetti puramente clinici della nostra permanenza a Milano”.

Javier, oggi

Finalmente, con l’inizio del 2022 arriva il momento di tornare a casa. Di nuovo, però, occorre avere pazienza. “Ci siamo presi tutti il Covid. Anche Javier, che è stato il primo bimbo trattato con terapia genica a prenderlo e per di più a pochissime settimane di distanza dal trattamento. Eravamo tutti molto preoccupati, anche i medici, e invece è stato meglio di tutti noi: non ha avuto alcun sintomo. Una perfetta prova del nove dell’efficacia della terapia”. Oggi Javier “è un bimbo birichino e testardo, sta bene e conduce una vita normale: adora andare all’asilo, ha un sacco di amici e il classico rapporto di amore-odio con la sorella”.

“A chi sostiene Fondazione Telethon diciamo grazie e continuate così, perché non potrete mai investire in niente di meglio che nel salvare vite umane”.

Cristina, mamma di Javier

“Il ritorno a casa con il nostro bimbo che stava finalmente bene è stato un momento straordinario, che ci ha ricompensato di tutta la preoccupazione precedente. A chi sostiene Fondazione Telethon diciamo grazie e continuate così, perché non potrete mai investire in niente di meglio che nel salvare vite umane”.