C’è chi dice che sia molto più forte ciò che s’imprime nella memoria attraverso un’emozione. L’emofilia si lega così ai ricordi della mia infanzia. Parliamo degli anni Sessanta, un’epoca in cui Fondazione Telethon non esisteva ancora.

Per me quella malattia era un pianto oltre le pareti della mia camera, un lamento di dolore che si protraeva per tutta la notte. Nell’appartamento accanto al nostro viveva Maria con il marito e i quattro figli: due femmine e due maschi. Bambini come me. I due maschi erano emofilici.

In quegli anni l’emofilia era pressoché priva di cura, non era ancora stata messa a punto nemmeno la terapia enzimatica che consente quantomeno di gestirne le manifestazioni. Per quei ragazzi essere emofilici voleva dire sviluppare emorragie pericolose e dolorose per un qualsiasi trauma, a partire dal classico ginocchio sbucciato.

Con loro ho trascorso pomeriggi interi a giocare a carte (i giochi da tavolo erano gli unici che potevano permettersi). E giorno dopo giorno, accanto a quei fratelli e alla loro mamma, che ho sempre visto soffrire con il sorriso sulle labbra, ho capito che ogni malato è prima di tutto una persona che vive una vita bellissima. Per Maria loro erano prima di tutto i suoi bambini.

Nel mio lavoro a Telethon ho ripensato spesso a quei compagni d’infanzia e a tutte le persone a cui vogliamo dare una risposta. Persone prima di tutto, proprio come loro. Maria non c’è più. Ci ha lasciato proprio nei giorni in cui Telethon stava concludendo l’accordo per sviluppare una terapia genica per l’emofilia. Quando ci arriveremo, in cuor mio, quel successo lo dedicherò a lei.