A 52 anni è l’unica giocatrice di golf disabile a essere entrata nel ranking nazionale. Quale soddisfazione più grande per una donna che nella vita ha sempre lottato e si è impegnata per realizzare i propri sogni?

Alessandra scopre solo quando ha quasi 30 anni il motivo della sua disabilità, difficoltà motorie le dicevano in molti. Malattia di Charcot-Marie-Tooth le dicono, invece, dopo l’esame del Dna. «Mostravo delle difficoltà motorie e mie gambe erano deboli – racconta Alessandra – mi hanno sempre considerata una bambina normale, da piccola mi facevano fare molto sport proprio per irrobustire i muscoli. Un incubo per me, perché avevo molti dolori».

 

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Negli anni ’80 finalmente si vede la luce, e da solo problema ortopedico, si ipotizza anche un coinvolgimento neuronale. Ma è necessario aspettare gli anni ’90 per riuscire a studiare il Dna di Alessandra. A quei tempi si conosceva ancora molto poco della malattia di Charcot-Marie-Tooth. Oggi sappiamo che è una malattia genetica che colpisce i nervi e per cui non esiste ancora una terapia efficace. Attualmente sono in corso importanti trial clinici volti a valutare l’efficacia farmacologica di alcune particolari sostanze, studi clinici proprio come quello in cui Alessandra è stata coinvolta circa 10 anni fa. «Il trial era finanziato da Fondazione Telethon e mi ha aiutato a vedere da vicino come funziona realmente la ricerca scientifica, così importante perché dà speranza alle generazioni future». Il trial per Alessandra ha avuto il grande merito di creare un legame tra i medici e i pazienti e di darle tranquillità sapendo che finalmente qualcuno comprendeva le sue parole nel racconto della malattia: «Per la prima volta ho avuto la sensazione di essere visitata da persone che già conoscevano la mia malattia, ero abituata di solito a dover spiegare ai medici cosa fosse la malattia di Charcot-Marie-Tooth».

La consapevolezza della malattia arriva per Alessandra grazie allo sport, il golf. Uno sport che aiuta a superare molte barriere, un’esperienza entusiasmante che le permette di sfidare alla pari giocatori normodotati. «Facevo finta di essere sana, mi vergognavo della mia malattia, con il tempo e grazie a questo sport ho capito che non serve a niente nascondersi ma è necessario avere il coraggio di accettarsi e cogliere la sfida».

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