La Responsabile della Ricerca di Fondazione Telethon ricorda che «le malattie genetiche rare sono un terreno di frontiera: studiarle porta a conoscere meccanismi biologici così fondamentali da avere ricadute in tutti i campi della medicina».

Manuela Battaglia

Con la violenza di uno schiaffo, l’emergenza coronavirus ha fatto provare al mondo intero le stesse – identiche – sensazioni di un genitore di fronte alla diagnosi di malattia genetica rara del proprio figlio: paura dell’ignoto, urgenza di trovare una soluzione, fiducia incrollabile nella ricerca scientifica quale unico mezzo per farlo.

Ecco, se c’è un insegnamento che spero si sedimenti nella mente di tutti a partire dall’esperienza di questa pandemia è proprio la consapevolezza di quanto la ricerca sia un patrimonio collettivo: un valore che, purtroppo, non si comprende veramente finché non se ne ha bisogno in prima persona.

I malati rari sono soli di fronte al loro problema, non sanno a chi rivolgersi e come ottenere ascolto per risolverlo: oggi proviamo tutti una sensazione molto simile, con la differenza però che assistiamo a un dispiegamento di forze, risorse economiche ed umane di proporzioni globali. Questo certamente porterà a ridurre notevolmente i tempi “normali” di sviluppo e immissione sul mercato di farmaci e vaccini, ma non potrà comprimerli oltre un certo limite.

Possiamo fare tesoro delle esperienze passate e recenti e della tecnologia, che corre velocissima: se all’inizio degli anni ’80 ci sono voluti due anni per identificare Hiv quale responsabile dell’Aids, per la sequenza genetica del Covid-19 è bastato un mese. Al contempo, però, si è anche alzata l’asticella in termini di richieste da parte delle autorità regolatorie per garantire sicurezza ed efficacia: esiste quindi un tempo fisiologico che non si può annullare, con cui dobbiamo fare i conti tutti.

Vogliamo tornare presto alla vita di prima e siamo pronti a credere che qualsiasi “farmaco promettente” raccontato dai media sarà pronto nell’immediato, ad aggrapparci a qualsiasi appiglio esattamente come il genitore di un bambino con una malattia genetica quando legge che per la patologia di suo figlio è stata dimostrata l’efficacia di una terapia nel modello animale. Ecco perché, quando questa emergenza sarà rientrata, dovremmo tutti ricordarci di essere stati nei panni di queste persone, quelle per cui Fondazione Telethon lavora ogni giorno da trent’anni.

Prima di diventare responsabile della Ricerca di questa organizzazione ho fatto la scienziata per oltre vent’anni e posso dire che chi fa questo lavoro è abituato all’incertezza, anzi, ci convive per tutta la sua carriera (e quindi la vita).

Per definizione, lo scienziato si confronta con l’ignoto e porta avanti attività quali esperimenti, sottomissione di articoli a riviste specializzate, richieste di finanziamento che hanno sempre un ampio margine di insuccesso. A differenza di altre professioni, non si hanno punti fissi: in un certo senso è grazie al mio lavoro se riesco ad accettare la situazione attuale, ad avere la pazienza di attendere.

Capisco però al contempo il senso di urgenza che anima chi non fa parte del mondo scientifico ed è forse nostro compito – dei ricercatori e di enti come Fondazione Telethon – fare cultura in questo senso, far comprendere come la ricerca scientifica sia un percorso, che non può portare a risposte nette e immediate, ma che piuttosto aggiunge progressivamente frammenti di conoscenza che si sedimentano nel tempo. Frammenti preziosi, che possono anche confutare quanto ipotizzato in precedenza o avere un impatto in campi molto diversi da quello in cui sono nati, con un effetto domino spesso inimmaginabile. In questo senso, le malattie genetiche rare sono da sempre un terreno di frontiera: studiarle porta a conoscere meccanismi così fondamentali dal punto di vista biologico da avere ricadute in tutti i campi della medicina. Per questo è importante continuare a sostenerla, anche durante un’emergenza come questa: cerchiamo di ricordarcelo sempre.