Con Alberto Fontana, consigliere di amministrazione di Fondazione Telethon e colonna storica dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare, siamo andati alla scoperta del suo libro: “Le regole dei motoneuroni – Storie di vita da raccontare”.

Da dove nasce il libro?
«In modo molto naturale, dall’incontro con le persone con cui sono cresciuto, con cui ho condiviso le mie esperienze. Quelle che io chiamo ricchezze. Essere parte di una comunità mi ha messo difronte a una grande possibilità: avvicinarmi alle storie di persone che mi hanno, prima di tutto, dato la consapevolezza che vale sempre la pena giocare la propria partita».

A proposito di partita. Gli scacchi sono la metafora che accompagna le storie. Perché questa scelta?
«Nel gioco ci sono tante mosse, codificate dai maestri, che i giocatori, come facevo anch’io da piccolo, studiano e copiano. Ma l’esperienza mi ha insegnato che ce ne possono essere altre. Negli scacchi, come nella vita, non si può cancellare ciò che si è fatto, non si può tornare indietro, ma si possono aprire prospettive impensabili. E gli errori spesso sono la strada migliore per scegliere di prendere altre direzioni e per avere la consapevolezza che ciascuno può scrivere le proprie mosse, diventando arbitro e protagonista della propria esperienza».

Vite, esperienze, persone diverse che fanno le proprie mosse. Ma quanto c’è di Alberto in queste storie e in queste mosse?
«Le storie che racconto prendono spunto dalle vite di persone che ho incontrato, ma sono poi romanzate; ho inserito elementi “altri”, spesso anche miei. Al di là della prima parte, spiccatamente autobiografica, nel resto del libro c’è tanto di me. E della mia partita. Ci sono alcune delle mie mosse».

Quali mosse?
«Anche alcune di quelle che ho giocato con mio papà. La sua è stata una partita complicata. Che si è dovuto “reinventare” facendo fronte alla necessità di accettare la mia malattia. So che non è stato semplice, ma ha trovato anche lui la capacità di trovare nuove strade, di giocare le sue mosse. Perché ha deciso di scegliere».

Di quale scelta si tratta?
«Difronte alla malattia affronti un bivio: puoi disperarti, nella domanda, più che comprensibile e legittima, “perché a me?”, o decidere di reagire e di esplorare nuove possibilità e giocare, comunque, al meglio. E nel farlo, ognuno può individuare la propria strada, il proprio sostegno. Per alcuni è la fede, per altri possono essere le indicazioni dei grandi filosofi, come quelli che cito nel libro. Ma trasformare la rabbia in energia positiva, che è la strada intrapresa da mio padre, è il modo migliore capire quanto la vita sia davvero una grande bellezza».

Ad un bimbo che affronta una malattia genetica e che comincia ora la sua partita vuoi dire qualcosa, vuoi suggerire una mossa?
«Da papà, vorrei dire di esplorare tutte le possibilità che, anche nelle sua condizione, può avere. Non deve essere una vendetta nei confronti della malattia, o una rivalsa sul destino, ma il modo, la giusta via, per essere protagonisti del proprio cammino e non privarsi di qualcosa di bellissimo, come la vita».