A vent’anni esatti da quando Pietro ha ricevuto la diagnosi, la storia della leucodistrofia metacromatica è cambiata radicalmente grazie alla ricerca Telethon. E sarebbe importante che fosse disponibile anche lo screening neonatale per questa malattia.

L’inizio della storia di Pietro

«La terapia genica messa a punto dai ricercatori Telethon per la leucodistrofia metacromatica è un grande dono per chi riesce ad averla: allarga il cuore vedere come può cambiare la vita. Sarebbe molto importante che fosse disponibile lo screening neonatale».

«Se fosse arrivata prima certamente la nostra storia sarebbe cambiata e non nascondo che ogni tanto ci chiediamo come sarebbe nostro figlio Pietro se non si fosse ammalato o se ci fosse stata la terapia, che persona sarebbe».

Elena, mamma di Pietro

Sono certa che anche i suoi fratelli se lo chiedono, soprattutto crescendo hanno dovuto confrontarsi con la difficile domanda del “perché a lui e non a me?”. Però al contempo non ha molto senso pensarci troppo, è andata così e lo abbiamo accettato. E Pietro è ancora qui con noi».

Una diagnosi inaspettata

A parlare è Elena, mamma di un ragazzo di 24 anni a cui nella primavera del 2004 è stata diagnosticata la leucodistrofia metacromatica, malattia genetica neurodegenerativa per la quale al tempo non esisteva alcuna terapia.

«Fino ai 4 anni Pietro era un bambino assolutamente normale – racconta. Insieme al suo fratello gemello Eugenio e al fratello Jacopo, maggiore di 2 anni, andava all’asilo, giocava, era una vera peste. Le cose hanno cominciato a cambiare nel dicembre del 2003, durante le vacanze di Natale, quando ha iniziato a mostrare comportamenti strani: si faceva la pipì addosso, mangiava i pennarelli, perdeva l’equilibrio. Un giorno, tornando dall’asilo, faceva più fatica del solito a camminare: barcollava, come se fosse ubriaco. Non riusciva più nemmeno a pedalare in sella alla sua bicicletta».

Preoccupati, Elena e suo marito Ferruccio portano Pietro dal pediatra, che suggerisce di ricoverarlo e fargli una risonanza magnetica. L’esame rivela subito un’anomalia nella sostanza bianca e in soli tre giorni i medici arrivano alla diagnosi di questa malattia genetica, di cui i genitori erano inconsapevolmente portatori sani. Dei tre fratelli, Pietro è l’unico ad avere ereditato il difetto da entrambi.

La vita che cambia

«Quando Pietro ha iniziato ad avere difficoltà, se ne è reso conto – racconta Elena. Anche se il decorso è stato rapido, ha avuto il tempo di capire quello che gli stava succedendo. Prima che fosse del tutto incapace di muoversi, gli avevamo tirato fuori il triciclo di quando era piccolo, visto che non era più in grado di usare la bicicletta. Un giorno, stava pedalando in casa, quando a un certo punto ha incontrato il tappeto: doveva fare forza per salire e non riusciva. Fuori, i suoi due fratelli stavano giocando. Si è alzato, all’epoca ancora ci riusciva, per un po’ ha guardato i fratelli, poi si è arrabbiato e mi ha chiamato. Tra le lacrime, mi ha detto “mamma, io voglio crescere”. Non c’è cosa peggiore che vedere tuo figlio soffrire e non poter fare nulla. Ho cercato di calmarlo, ma poi non ce l’ho fatta e sono dovuta scappare dalla stanza».

Pietro, un ragazzo con la leucodistrofia metacromatica
Oggi Pietro ha 24 anni

Presto, Pietro diventa del tutto incapace di muoversi e di parlare. «Ricordo precisamente lo sgomento di nostro figlio quando ha realizzato che non sarebbe più stato in grado di parlare – ricorda il padre. Una delle ultime cose che ha detto è stata la richiesta di montargli la piscina in giardino. Poteva mangiare solo cose frullate, non solidi, né liquidi. Gli iniettavamo succhi molto densi con una siringa direttamente in bocca.

«Vedere il proprio figlio che arranca per fare un gesto o un semplice movimento, per dire una parola che non riesce più a pronunciare è una tortura che ogni giorno ti distrugge. E tu non sei capace di fare niente, non puoi fare niente. Ti sembra di impazzire».

Ferruccio, papà di Pietro

L’incontro con Fondazione Telethon e la ricerca

Un mese dopo la diagnosi, Elena vede in televisione un servizio che parla proprio della malattia di Pietro: un gruppo di ricercatori dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano sta lavorando a una terapia innovativa per correggere il difetto genetico responsabile e ne ha appena dimostrato l’efficacia nel modello animale. Si tratta di una terapia genica, che usa una versione resa innocua del virus HIV per trasferire una versione sana del gene difettoso nei bambini come Pietro all’interno delle cellule staminali del sangue. Una volta corrette e reinfuse, queste cellule riescono a ripulire l’organismo dai metaboliti tossici e a evitare la neurodegenerazione. Elena chiama subito la redazione ed è così che incontra per la prima volta Telethon e i suoi ricercatori. Francesca Fumagalli, neurologa dell’Ospedale San Raffaele che si occupa di MLD fin dai tempi della sua specializzazione in Medicina, ricorda ancora il momento in cui Pietro e i suoi genitori hanno varcato la porta dell’ambulatorio per la prima visita.

Purtroppo, ai tempi la terapia genica era ancora solo un’idea promettente, i primi risultati erano stati ottenuti soltanto sul modello animale: tuttavia la famiglia è stata seguita fin da allora dallo staff clinico del San Raffaele, accettando anche di entrare a far parte dello studio di storia naturale che ha permesso di conoscere a fondo la malattia e si è poi rivelato essenziale per valutare gli effetti della terapia genica sui bambini che hanno preso parte alla sperimentazione.

Un rapporto speciale con i fratelli

Nonostante la grave disabilità, Pietro continua frequentare la scuola, con l’ausilio della sedia a rotelle (lo farà fino alle medie); segue dei programmi speciali, fa fisioterapia, mangia solo cibo frullato. Anche se non parla più si fa capire con lo sguardo, comunica molto con gli occhi, sorride spesso.

I fratelli sono molto affettuosi con lui: per non farlo sentire in imbarazzo chiamano “mutandine magiche” il pannolino che ormai Pietro è costretto a portare, giocano con lui, gli raccontano le fiabe. La sua preferita è quella di Biancaneve, nella versione di Walt Disney: ormai non riesce più a cantare squarciagola la canzone dei 7 nani “andiamo a lavorar”, ma sorride ancora molto quando vede il cartone animato. Un’altra cosa che ama è l’acqua, si diverte a stare con i fratelli nella piscina gonfiabile in giardino.

I fratelli sanno che Pietro è malato, del resto sarebbe impossibile nasconderlo. Jacopo ha scritto una lettera ai medici: “Cari dottori, mi chiamo Jacopo e sono il fratello di Pietro. Ha 5 anni e ha una malattia rara. Pietro non è nato così e avrei tanta voglia di giocare ancora con lui. Io vorrei che trovaste la medicina per farlo guarire. Io penso che dobbiate cercare dappertutto. Vi ringrazio per quello che state facendo”.

La vita che continua

A vent’anni esatti da quando Pietro ha ricevuto quella diagnosi, la storia della leucodistrofia metacromatica è cambiata radicalmente grazie alla ricerca Telethon. Quella terapia genica che nel 2004 era soltanto un esperimento in laboratorio negli anni è arrivata prima a essere sperimentata sui pazienti, nel 2010, poi nel 2020 all’approvazione come farmaco nell’Unione europea, a cui è seguita nel 2024 anche quella degli Stati Uniti.

Dal 2022 è rimborsata dal Servizio sanitario nazionale italiano: lo screening neonatale, per il quale è stato avviato in Lombardia uno studio pilota promosso da Fondazione Telethon, permetterebbe di intercettare la malattia prima che abbia fatto quei danni che vanificano l’efficacia della terapia genica e di offrirla così a tutti i bambini che nascono con questo difetto genetico, senza lasciare indietro nessuno.

Pietro, un ragazzo con la leucodistrofia metacromatica

Questo è anche l’auspicio di Elena e di tutta la sua famiglia. Oggi Pietro ha 24 anni e la sua malattia, per quanto grave si è da molti anni stabilizzata. Si nutre con la peg, non muove più alcun muscolo e comunica solo con lo sguardo. È comunque in grado di riconoscere i familiari e dà sempre la sensazione di capire ciò che gli accade intorno. «Da quando ha finito la scuola abbiamo scelto di far venire in casa i servizi per spostarlo il meno possibile – racconta Elena. Per alcune ore alla settimana viene del personale specializzato che gli fa fare delle attività focalizzate sugli stimoli sensoriali e sulla musica. Io sono da poco andata in pensione dal mio lavoro da infermiera e questo certamente mi darà un po’ di respiro, la nostra vita era sempre di corsa».

«Devo dire però che la nostra famiglia ha sempre collaborato: dai nonni ai fratelli, tutti hanno sempre dato una mano per la gestione di Pietro. Eugenio, il suo gemello, dopo il diploma preso l’istituto tecnico agrario ha cominciato a lavorare nel vivaio di famiglia, con il papà. Da poco, però, si è iscritto a un corso per diventare operatore sociosanitario, probabilmente la sua esperienza personale ha influito su questa scelta. Il periodo della pandemia è stato certamente complicato, ma per fortuna siamo riusciti a non contagiarci nelle prime fasi drammatiche. Quando abbiamo preso il COVID-19 eravamo già tutti vaccinati, compreso Pietro, e non abbiamo avuto particolari problemi. La vita di comunità in un piccolo centro ci ha sempre aiutati, da tutti i punti di vista».

Nonostante tutto, una famiglia serena, dove tutti hanno fatto la propria parte. Continuando, sempre, a credere nella ricerca.