Con le malattie rare può succedere anche questo: che siano così tanto rare da essere praticamente sconosciute. Ci sono sintomi magari importanti, c’è la sofferenza dei pazienti (spesso bambini) e delle loro famiglie, c’è una successione di esami che però non porta ad alcuna soluzione: nonostante gli sforzi manca sempre il nome della malattia – cioè la diagnosi – e dunque mancano una terapia e una prognosi (la possibilità di sapere come evolveranno le cose).

Di queste situazioni tanto complesse si occupa il programma triennale Malattie senza diagnosi di Fondazione Telethon, avviato nella primavera 2016. Nicola Brunetti-Pierri, ricercatore del Tigem di Pozzuoli (Napoli) è anche il responsabile dell’Unità di genetica medica del Policlinico universitario Federico II di Napoli, coinvolta nel programma fin dall’inizio, insieme all’Unità clinica del San Gerardo di Monza – Fondazione MMBM. «Strada facendo se ne sono aggiunte altre in tutta Italia» spiega Brunetti-Pierri, elencando per esempio l’Istituto neurologico Besta di Milano, l’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze, il Policlinico Umberto I di Roma, l’Ospedale Gaslini di Genova.

COME SI CERCA IL “COLPEVOLE”

Da questi centri – ma anche da singoli medici e pediatri, che possono candidare i loro pazienti attraverso la piattaforma web di Telethon per l’accesso al programma – arrivano le segnalazioni di casi di malattie senza “colpevole”. A volte, per trovare il responsabile basta l’analisi dei dati disponibili da parte dei clinici esperti del programma, che lavorano in collaborazione con colleghi di tutto il mondo alla ricerca dei casi più simili, in grado di offrire un indizio su come muoversi. Ma se l’osservazione clinica e i risultati di eventuali esami strumentali non bastano a formulare una diagnosi, si passa alla fase successiva: una sofisticata analisi genetica eseguita su un campione di sangue del paziente presso un laboratorio dedicato del Tigem di Pozzuoli. Con l’obiettivo specifico di individuare l’anomalia molecolare responsabile della malattia.

«Il programma nasce proprio dall’incontro tra l’esigenza clinica di dare un nome a malattie che ancora non ce l’hanno e la disponibilità di un avanzamento tecnologico – il sequenziamento del DNA di nuova generazione – che permette di analizzare a tappeto una porzione molto significativa del genoma umano». La porzione di DNA sulla quale si concentra l’analisi è il cosiddetto esoma, che comprende i geni contenenti le istruzioni per la sintesi di proteine ed è anche la porzione interessata più di frequente dalle malattie genetiche. «Talvolta si identifica una mutazione in un gene già noto per il suo coinvolgimento in una sindrome specifica» spiega Brunetti-Pierri. «Magari il paziente aveva una manifestazione atipica di quella sindrome per cui in prima battuta non si era riusciti a diagnosticarla». Altre volte, invece, l’analisi genetica individua anomalie in geni che non erano mai stati coinvolti in malattie con quelle caratteristiche. «In questi casi non abbiamo ancora un colpevole vero e proprio ma solo un sospettato, il che è comunque un grande passo avanti».

L’IMPORTANZA DELLA DIAGNOSI

Riuscire a dare un nome a una malattia che non ce l’ha non è un dettaglio da poco. Al contrario, è un passaggio fondamentale per il paziente, la sua famiglia, i medici che se ne prendono cura. Tanto per cominciare c’è l’aspetto psicologico: vivere con una malattia sconosciuta aggiunge al peso “fisico” della malattia stessa quello psicologico di non sapere neppure contro cosa si sta lottando e quali sono le sue possibili evoluzioni. «Questo genera una grandissima ansia» riconosce il medico, sottolineando come invece basti dare un nome alla malattia per cambiare la prospettiva. Spesso, per esempio, questo consente di formulare una prognosi, cioè sapere quali problemi bisognerà affrontare in futuro. «Per i genitori di un bambino con una grave malattia genetica è importantissimo sapere se le condizioni del piccolo sono destinate a stabilizzarsi, magari addirittura con un margine di miglioramento, o se al contrario andranno incontro a ulteriori degenerazioni. Certo, nel caso di malattie molto rare e appena riconosciute dalla comunità scientifica le informazioni disponibili possono essere poche, ma sono comunque un punto di partenza». In molti casi, inoltre, disporre di una diagnosi significa disporre anche di una terapia, magari sperimentale se non proprio già consolidata. «Infine – conclude Brunetti-Pierri – per i genitori di un bimbo malato identificare la causa della malattia significa avere la possibilità di capire se questa può ripresentarsi in gravidanze successive, aprendo la strada alla possibilità della diagnosi prenatale».

Al momento il programma Malattie senza diagnosi di Telethon ha analizzato circa 200 casi, “risolvendone” oltre la metà , quindi con un risultato nettamente migliore rispetto a simili programmi internazionali. È tuttavia inevitabile chiedersi cosa succeda nei casi che restano insoluti. «Probabilmente sono dovuti a lesioni genetiche molto ben nascoste, che non riguardano l’esoma, ma porzioni del DNA che non codificano per le proteine e che sono un po’ più difficili da indagare» spiega Brunetti-Pierri. I ricercatori del programma, però, non si lasciano scoraggiare dalla nuova sfida: alcuni dei casi difficili saranno sottoposti a un’analisi ancora più sofisticata e dettagliata, per cercare di stanare anche questi colpevoli così refrattari.