Traducendo in italiano due parole inglesi, cure e care, si ottiene un risultato uguale solo in apparenza: cura. Perché il senso del primo vocabolo è il complesso dei mezzi terapeutici e delle prescrizioni mediche che hanno il fine di guarire una malattia. Quello del secondo, invece, l’interessamento solerte e premuroso per una persona; il riguardo, l’attenzione, l’assistenza verso qualcuno. Fondendo insieme questi concetti si arriva al senso del Centro clinico Nemo.

Un progetto voluto e realizzato dalla Fondazione Telethon e Uildm (Unione italiana lotta alla distrofia muscolare), una struttura ad alta specializzazione che si occupa della presa in carico globale delle persone affette da malattie neuromuscolari. Il primo è stato costruito a Milano nel 2007, seguito da Arenzano (Ge), da Messina e infine da Roma. Telethon ha investito e investe in questo progetto in perfetta coerenza con la propria missione e i propri valori. Mettere la persona al centro dei propri obiettivi, considerando preziosa ogni singola vita, significa sostenere e finanziare non solo la ricerca volta alla cura definitiva, ma anche quegli studi il cui fine è il miglioramento della qualità della vita. E farsi carico del giusto contesto in cui il paziente possa affrontare la malattia è, a suo modo, consequenziale. Il valore unico dei centri Nemo sta nell’offrire alle persone un supporto clinico, assistenziale e psicologico, volto a migliorarne proprio la qualità di vita. Il valore aggiunto sta nella possibilità di fare tutto questo in un unico luogo, risparmiando a pazienti e familiari faticosi, pesanti e costosi peregrinare su e giù per l’Italia.

Al di là delle complicazioni che si possono evitare, è un vantaggio sostanziale, dal punto di vista strettamente medico, che il team responsabile di un paziente possa condividere le informazioni e concertare le azioni da intraprendere in tempo reale, senza ritardi ed evitando riduttive soluzioni tecnologiche. Una presa in carico globale consente di intervenire su tanti degli aspetti sotto cui va affrontata e gestita la malattia. Il miglioramento della vita passa attraverso la ricerca clinica, ma anche da una reale ed efficace assistenza, medica, infermieristica, fisioterapica e psicologica. Intervistato, uno qualunque degli ospiti risponderà che la cosa più bella del Nemo è «non sentirsi mai soli e il non essere considerati dei numeri».

Abbiamo chiesto al professor Eugenio Mercuri, ricercatore Telethon responsabile del reparto di neuropsichiatria infantile del policlinico Gemelli di Roma, di parlarci dell’ultimo centro nato, il Centro di Roma. «Nasce da un sogno in comune con gli amici di Milano. Volevamo esportare quel modello che tanto bene sta funzionando. La particolarità a cui abbiamo pensato è di dare maggiore spazio alla parte pediatrica. Per questo abbiamo voluto un reparto dedicato con professionalità e infrastrutture ad hoc. Un aspetto a cui teniamo molto è l’ascolto alle famiglie per cercare di superare insieme i problemi». «Il nostro reparto», continua Mercuri, «è coinvolto a 360 gradi nella cure delle malattie neuromuscolari, in un percorso che va dalla ricerca, intesa come studi clinici, alla cura della quotidianità. Tutto questo attraverso un approccio multidisciplinare che vede la presenza di ortopedici, fisioterapisti, psicologi, solo per citare alcune delle professionalità che lavorano al centro. La cura psicologica è l’anima del nostro lavoro e al centro ci saranno spazi dedicati. Il cammino che ci immaginiamo ha, tra le sue tappe principali, l’attenzione all’aspetto muscolo-scheletrico, a quello legato alla nutrizione, fino a quello in ambito respiratorio. Il Nemo può offrire tutto questo sotto un unico tetto». Un ambiente protetto in cui si mettono al servizio degli ospiti gli importanti passi avanti che si stanno facendo nella ricerca, non solo verso la cura, ma anche in direzione di una migliore qualità della vita. «Del resto», prosegue il professore, «da clinico che fa ricerca, posso dire che proprio grazie alla ricerca la malattia è cambiata. Quando ero più giovane, un medico statunitense mi disse che, se un ragazzo con la distrofia di Duchenne a 9 anni camminava staccando i piedi da terra, mi conveniva rifare i test, perché con tutta probabilità non era un paziente Duchenne. Oggi non è più così, perché tanti bambini con questa malattia sono in grado di correre. Senza parlare di quanto è cresciuta l’aspettativa di vita». E in un rapporto così stretto tra medico e paziente, grande rilevanza assume la comunicazione.

«La nostra volontà non è di rassicurare le famiglie, ma di informarle. Sappiamo, per esempio, che con uno standard di cura molto accurato e preciso si può rallentare la malattia e di questo mettiamo a parte genitori e bambini. Va da sé che alle mamme e ai papà vanno dette alcune cose che non ha senso che i bambini sappiano. Principalmente per due ordini di motivi. Prima di tutto», e su questo Mercuri è risoluto, «perché angosciare un bimbo su quello che potrebbe succedere, togliendogli speranze ed energie che, invece, deve avere per combattere le malattia? In secondo luogo, dobbiamo ragionevolmente pensare che tra dieci anni molte cose saranno cambiate. E certe informazioni non sarebbero più corrette. In ogni caso, la nostra grande preoccupazione, proprio in un momento in cui la ricerca sta andando avanti, è sempre di non dare false speranze». «Del resto», conclude, «a maggior ragione ora che abbiamo centri come il Nemo, se tra 10 anni un ragazzo con la Duchenne stesse nelle medesime condizioni di un ragazzo di un ragazzo di adesso, della stessa età e con la stessa patologia, vorrebbe dire che abbiamo sbagliato tutto».