Da uno studio dell’Istituto San Raffaele Telethon di Milano un contributo importante alla conoscenza sui meccanismi con cui si formano le staminali ematopoietiche durante la vita embrionale.

Andrea Ditadi dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica

Il trapianto di cellule staminali del sangue è l’esempio più longevo di medicina rigenerativa, capace cioè di promuovere la formazione di nuovi tessuti sani in caso di malattia: il primo è stato eseguito nel lontano 1957 e oggi è il trattamento standard per molti tumori e malattie genetiche rare.

Grazie all’ingegneria genetica, poi, oggi siamo anche in grado di modificare il patrimonio genetico di queste cellule per curare diverse malattie genetiche del sangue, del sistema immunitario o del metabolismo: tra i punti di riferimento nel mondo per la terapia genica con cellule staminali c’è l’Istituto san Raffaele Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano, dove i ricercatori hanno dimostrato come modificare queste cellule per fornire una o più copie di un gene difettoso, ripristinando o addirittura potenziando una funzione vitale per l’organismo.

Eppure, nonostante siano ampiamente usate nella pratica clinica, le cellule staminali del sangue sono ancora piuttosto misteriose e sfuggenti. Sono poche, difficili da localizzare con precisione e, soprattutto, durante la vita adulta sono quiescenti, si risvegliano solo in caso di necessità. Per tutte queste ragioni, nonostante sappiamo prelevarle e ingegnerizzarle, non siamo ancora in grado di produrle in laboratorio. Ottenerle in vitro, in grandi quantità e mantenendone il potenziale rigenerativo (cioè la capacità di dare origine ai diversi elementi del sangue), farebbe fare un balzo in avanti importante alla medicina rigenerativa: permetterebbe sia di produrre su larga scala cellule da impiegare in campo terapeutico senza rischio di rigetto, sia di studiare con più precisione lo sviluppo del sistema immunitario e la causa di malattie genetiche del sangue. La “ricetta” per farlo, però, non è ancora stata trovata.

A questa sfida ha dedicato fin dall’inizio la sua carriera di ricercatore Andrea Ditadi, che all’SR-Tiget guida un gruppo dedicato proprio allo studio dei meccanismi di base con cui si formano le cellule staminali del sangue durante lo sviluppo embrionale. In un lavoro appena pubblicato su “Nature Cell Biology, il suo team in collaborazione col laboratorio di Christopher Sturgeon del Black Family Stem Cell Institute del Mount Sinai Hospital di New York, ha aggiunto un nuovo e importante tassello alla comprensione di questo processo così complesso.

«Man mano che cresce per prepararsi alla vita, l’embrione – spiega Ditadi – attiva programmi diversi in base alle sue esigenze. Il sangue dell’embrione è infatti diverso da quello del feto e poi dell’adulto. Per esempio, nelle fasi iniziali in cui non siamo che un piccolo grumo di cellule servono globuli rossi ad altissima affinità per l’ossigeno, ma via via che inizia a formarsi la placenta questo non è più necessario, anzi può diventare controproducente. Oppure i macrofagi, che nella vita adulta sono essenziali per la difesa dell’organismo dai microbi, nell’embrione svolgono principalmente altre funzioni peculiari come il rimodellamento dei tessuti che consente di separare le dita di mani e piedi (nasciamo palmati infatti!). Da questi esempi si evince come l’emopoiesi non sia un processo lineare e strettamente gerarchico: non tutte le cellule del sangue si sviluppano allo stesso modo e nello stesso momento. Per ambire a ottenere cellule staminali ematopoietiche funzionanti in vitro dobbiamo conoscere a fondo tutti i segnali che ne guidano lo sviluppo fin dalle primissime fasi della nostra vita».

Ditadi e il suo team hanno quindi preso delle cellule staminali a uno stadio molto precoce di sviluppo (embrionali o pluripotenti indotte, cioè ottenute riprogrammando cellule adulte) e hanno provato a caratterizzare i passaggi che portano alla formazione di quelle specializzate nella produzione dei vari elementi del sangue. «Mi piace dire che tra le pareti del nostro laboratorio educhiamo con pazienza queste cellule a diventare staminali ematopoietiche, dando loro precisi segnali chimici e molecolari: più impareremo a conoscerne gli effetti, più ci avvicineremo alla “ricetta” per produrre in vitro cellule in grado di generare gli elementi nel sangue esattamente come avviene nel nostro corpo. In questo lavoro abbiamo descritto per la prima volta il ruolo di uno di questi ingredienti, l’acido retinoico o vitamina A: una sostanza fondamentale fin dalla vita intrauterina, che per esempio determina la corretta formazione delle cavità del cuore, atri e ventricoli. Deriva dalla dieta, in quanto l’organismo non è in grado di produrlo autonomamente: la sua attività è quindi regolata in maniera molto fine, specialmente nell’embrione. Grazie all’acido retinoico siamo riusciti a differenziare le staminali pluripotenti in cellule che sono molto simili ai progenitori che nell’embrione generano le cellule staminali ematopoietiche. Per usare una metafora sportiva presa in prestito dal curling, rispetto agli altri gruppi in giro per il mondo ci siamo avvicinati ancora di più al centro della casa: non siamo ancora dentro perché non abbiamo ancora trovato le chiavi, ma siamo sull’uscio e nel frattempo proviamo a bussare».