Dall’Hiv potrebbe arrivare nei prossimi anni una terapia in grado di correggere in modo stabile e duraturo il difetto genetico responsabile della grave patologia genetica del sangue.

«Da anni Fondazione Paracelso celebra il 17 aprile, Giornata mondiale dell’emofilia, con un simposio nel quale riflettiamo su tutto ciò che sta intorno alla malattia al di là degli aspetti prettamente clinici, in compagnia di volta in volta di sociologi, storici, filosofi della medicina, economisti, infermieri, medici, giornalisti e politici. Il tema di quest’anno è la nascita di quell’attività di tutela e promozione dei diritti e del ruolo dei pazienti che va sotto il nome di advocacy e che si è strutturata così come oggi la conosciamo a seguito dell’epidemia di Aids dei primi anni ‘80. Possiamo in effetti considerare i Principi di Denver, un breve documento redatto nel 1983 da un gruppo di persone con Aids, il manifesto fondativo dell’advocacy. Un’altra epidemia ci costringe purtroppo a rimandare il nostro appuntamento, che cercheremo di riprogrammare non appena le condizioni lo renderanno possibile». È questo il messaggio rivolto alla comunità degli emofilici di Andrea Buzzi, presidente di Fondazione Paracelso, nata nel 2004 con la costituzione di un Fondo di solidarietà a favore delle persone affette da emofilia che negli anni ‘80 avevano contratto l’Hiv attraverso i farmaci necessari alla loro cura. 

E per quello che può sembrare un paradosso, proprio da questo virus potrebbe arrivare nei prossimi anni una terapia in grado di correggere in modo stabile e duraturo il difetto genetico responsabile dell’emofilia, malattia genetica dovuta a un difetto nei fattori responsabili della coagulazione del sangue. All’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano il direttore Luigi Naldini e Alessio Cantore lavorano infatti da anni con il loro team a una strategia di terapia genica basata su vettori derivati proprio dall’Hiv, quelli lentivirali. «Del virus originale non resta che una piccola porzione – spiega Cantore – quella necessaria a garantire l’ingresso nella cellula bersaglio, per cui non esiste possibilità alcuna di trasmettere l’infezione. La terapia genica prevede la somministrazione attraverso un’iniezione endovenosa di questi vettori contenenti una versione sana del gene codificante i fattori della coagulazione (l’VIII nel caso dell’emofilia A e il IX nel caso dell’emofilia B); attraverso il sangue, questi vettori raggiungono il fegato, che inizia a produrre i fattori della coagulazione e a renderli disponibili per l’organismo».  

I risultati ottenuti nei modelli animali sono stati così promettenti da aver convinto nel gennaio 2015 la biotech americana Biogen Idec a fare un importante investimento nello sviluppo di questa strategia terapeutica, nella speranza di offrire in futuro una cura definitiva e sostenibile, anche dal punto di vista economico (successivamente, Biogen ha trasferito il programma alla spin-off Bioverativ, poi acquisita dall’azienda Sanofi).

Alla fine del 2019 l’azienda americana Biomarin ha presentato alle autorità regolatorie americane ed europee il dossier per l’approvazione della prima terapia genica per l’emofilia A, che sfrutta dei vettori virali diversi, quelli adeno-associati (Aav). Anche in questo caso la somministrazione avviene tramite un’infusione nel circolo sanguigno, tramite il quale il vettore raggiunge il fegato, che inizia a produrre la proteina mancante. Nel corso della sperimentazione clinica questa terapia genica ha dato buoni risultati in termini di sicurezza e di efficacia, tuttavia, questo approccio presenta attualmente due limiti principali che giustificano la ricerca in parallelo di strategie alternative: «il primo è che non è efficace in età pediatrica – spiega Cantore – perché il vettore non si integra e viene quindi “diluito” con la crescita. L’impiego di vettori lentivirali può potenzialmente farci aggirare questo ostacolo, perché si integrano stabilmente nel Dna della cellula ospite e vengono così trasmessi anche alle cellule figlie nel corso della vita».

L’altro problema, peraltro molto noto a chi si occupa di terapia genica, è rappresentato dalla possibile risposta del sistema immunitario nei confronti del vettore virale: una fetta significativa della popolazione presenta anticorpi pre-esistenti diretti contro il virus originale che di fatto ne neutralizzano l’effetto. Il fenomeno è simile a quello che si verifica in una percentuale significativa di pazienti, ovvero una risposta immunitaria diretta contro il fattore della coagulazione fornito dall’esterno che di fatto lo inattiva: grazie agli studi su questi meccanismi, come per esempio quelli di Francesca Fallarino dell’Università di Perugia, si potrebbero individuare delle strategie per modulare la risposta immunitaria contro questi vettori.

«Rispetto ai vettori Aav, quelli lentivirali derivati dal virus Hiv sono sostanzialmente “sconosciuti” per il sistema immunitario, quindi è improbabile che al momento della somministrazione esista una risposta immunitaria pregressa – conclude Cantore -. Piuttosto, può accadere il contrario, ovvero che i macrofagi, cellule sentinelle del sistema immunitario presenti nel fegato, li percepiscano come estranei e di conseguenza li distruggano. Abbiamo quindi perfezionato i nostri vettori in modo da renderli più resistenti alla cattura da parte di queste cellule e comunque in grado di trasferire in modo efficiente il gene terapeutico. Questo rappresenta quindi un ulteriore passo in avanti verso la sperimentazione clinica nell’uomo di questo tipo di terapia genica, che potrebbe quindi rappresentare una valida opzione terapeutica per i pazienti di età pediatrica e per quelli “resistenti” alla terapia con vettori Aav: obiettivo del prossimo futuro è infatti avviare uno studio clinico presso l’Ospedale San Raffaele, in collaborazione con il Policlinico di Milano, per valutare sicurezza efficacia di questa terapia genica in pazienti affetti da emofilia».