Sara Marktel, ematologa, racconta: «La speranza è di “donare” ai pazienti una nuova vita libera dalla malattia».

Sara Marktel

L’obiettivo della sua attività di ricerca è cambiare la vita di chi convive con la talassemia, una malattia ereditaria che causa un’anemia cronica molto grave. E in effetti, la terapia genica a cui sta lavorando all’Istituto San Raffaele Telethon (SR-Tiget) di Milano potrebbe liberare i pazienti dalla dipendenza dalle trasfusioni che, al momento, rappresentano il trattamento salvavita per tutti coloro – la maggior parte – che non possono ricorrere al trapianto di midollo osseo.

Sara Marktel, ematologa dal 2005 in forza al San Raffaele, è ottimista e pensando ai risultati finora raggiunti confida di arrivare presto al traguardo: correggere il difetto genetico che innesca la malattia. «Conclusa con successo la sperimentazione clinica di fase I-II, che ha coinvolto 9 pazienti di cui 3 adulti e 6 bambini, siamo pronti ad aprire un nuovo capitolo: dare il via a una sperimentazione più ampia al fine di rendere la nostra terapia accessibile ai pazienti».

La terapia a cui si riferisce prevede il prelievo dal paziente delle cellule staminali ematopoietiche (che danno origine a tutte le cellule del sangue), la loro correzione in laboratorio con l’inserimento di una copia funzionante del gene difettoso e la successiva reinfusione nell’organismo. La tecnica è simile a quella già impiegata all’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica per altre malattie genetiche, per esempio Ada-Scid il cui trattamento è diventato il primo farmaco salva-vita di terapia genica approvato al mondo.

In pratica, così viene corretto il difetto genetico che riduce (o annulla) la capacità di produrre emoglobina. E correggendo a monte ciò che ne determina il deficit,

«La vita dei pazienti non sarebbe più scandita dalle regolari trasfusioni di sangue, da fare ogni 15-20 giorni, e dalla terapia ferro-chelante necessaria per rimuovere il ferro in eccesso».

Dover dipendere dalle trasfusioni significa dover programmare la propria vita: «non solo perché ogni due o tre settimane bisogna andare in ospedale, ma anche perché, dopo la trasfusione, man mano che il livello di emoglobina scende, proprio come il livello di benzina dopo aver fatto il pieno, l’organismo non ha l’energia necessaria per funzionare bene». La sensazione di benessere quindi diminuisce e i pazienti devono inevitabilmente tenerne conto per affrontare i propri progetti di vita: che sia un impegno di lavoro, un’attività sportiva, una festa… Tra una trasfusione e l’altra, insomma, la qualità di vita non è costante ma peggiora al diminuire dell’emoglobina.

«Io mi occupo di talassemia sia gestendo la terapia cronica, sia i trapianti di midollo osseo: ne ho eseguiti più di 70 in pazienti provenienti da tutto il mondo» racconta l’ematologa. Il trapianto di midollo osseo da donatore è per ora l’unica terapia risolutiva ma per molti è una strada non percorribile: si stima infatti che esista un donatore compatibile per meno di un terzo dei pazienti talassemici. Con la terapia genica, invece, in pratica ciascun paziente è donatore di sé stesso.

«La sperimentazione clinica, frutto di oltre dieci anni di lavoro del gruppo di ricerca coordinato da Giuliana Ferrari, ha confermato la sicurezza del nuovo approccio ma non solo: nella maggior parte dei pazienti abbiamo già riscontrato anche l’efficacia. In particolare quattro dei sei pazienti pediatrici sono diventati trasfusione-indipendenti»: Sara Marktel non nasconde l’emozione.

«Il confronto con i pazienti e i loro familiari è emozionante: da una parte c’è la soddisfazione di contribuire a migliorare la qualità della loro vita, la speranza di “donare” loro una vita nuova libera dalla malattia, dall’altra la grossissima responsabilità di soddisfare al meglio la fiducia che loro pongono in noi».

«Il nostro lavoro – conclude – è una missione: il nostro impegno è finalizzato a migliorare il futuro dell’umanità, la salute delle persone. Ma è una professione, come quella degli insegnanti, sottovalutata e sottoremunerata».